25 Maggio 2019, Cento – Sala del Consiglio Comunale – Palazzo del Governatore
RASSEGNA STAMPA
INTERVENTO di ANTONIO PATUELLI -Presidente ABI
Trentacinque anni fa i banchi del Consiglio Comunale erano sempre questi; la sede invece era quella storica dove vi auguro tornerete presto, a suggello della grande ricostruzione che state effettuando a tempo di record dopo il terremoto.
Trentacinque anni fa avevo 33 anni, Giovanni ne aveva 80 e noi proponemmo alla Municipalità di ricordare il primo Malagodi che non era a Cento. Una cittadinanza onoraria molto sentita e l’unica preoccupazione di Giovanni era di natura topografica. Mi diceva “Antonio – e cercava di parlare in dialetto- ma fra Pieve e Cento – vi è la differenza fra l’Emilia e la Romagna?” “No – gli ho risposto – la situazione è un po’ più complessa perché Cento è città eminente economicamente fra Bologna e Ferrara, ma fa parte del Ducato di Ferrara e della Legazione di Ferrara; mentre Pieve di Cento era ed è il primo Comune della Provincia di Bologna, superato l’argine di Reno, ed era Legazione di Bologna. Giovanni però non era molto convinto della mia spiegazione e a quel punto per risolvere la questione staccò dalla parete del suo studio la mappa delle Legazioni Pontificie che mi regalò e che conservo ancora nel mio studio. In effetti, lui era precisissimo, venivano definite tutte insieme Legazioni delle Romagne e poi distintamente la Legazione di Bologna, la Legazione di Ferrara e la Legazione della Romagna con sede a Ravenna.
Giovanni è stato magistrale soprattutto come banchiere. E’ nato a Londra perché il babbo faceva il corrispondente del principale quotidiano giolittiano “La Tribuna” da Londra. Olindo era nato qui a Cento e poi con la passione della scrittura e della cultura aveva fatto questa bellissima carriera e nel 1904 era a Londra; e nascere a Londra per uno di Cento era già un evento. Giovanni crebbe però come studi soprattutto a Roma dove si laureò a 22 anni nel 1924 in Giurisprudenza con una tesi sulle dottrine politiche, al plurale. Sottolineo nel ‘24, un anno in cui il pluralismo viene schiacciato. Era appassionato al diritto e la tesi venne vista in casa di Olindo Malagodi in particolare da due signori: uno si chiamava Giovanni Giolitti e l’altro Benedetto Croce. Di Giovanni Giolitti Olindo Malagodi stava scrivendo le “Memorie”. Le Memorie sono frutto della penna di Olindo e di descrizioni di Giolitti e Giovanni mi raccontò che lui studente universitario corresse tutte le bozze delle Memorie di Giolitti (questo è il forte collegamento di natura culturale) e che avevano avuto nella fine del ‘14 e nell’inizio del ‘15 un ruolo molto attivo di Olindo per conto di Giolitti, nel cercare di evitare l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. Giolitti e Benedetto XV furono, su linee parallele anche se non direttamente comunicanti, fra coloro che avevano capito l’inutile strage che sarebbe stata realizzata dalla guerra mondiale. Giolitti aveva anche capito che lo Stato Nazionale, che aveva compiuto 50 anni tre anni prima nel 1911, sarebbe stato fortemente scassato, non si sa in che maniera, se la guerra avesse avuto anche il coinvolgimento dell’Italia. E quindi lui fu per ottenere il massimo del possibile da trattative diplomatiche simboleggiato nel termine del PARECCHIO. Il parecchio giolittiano consisteva nella non entrata in guerra in cambio del Trentino, la Venezia Giulia fino a Trieste città libera e porto franco. Mica poco! Si sarebbero evitati seicento mila morti, centinaia di migliaia di feriti, i traumi, i rischi, i costi umani delle famiglie ed anche del bilancio dello Stato. Ed i costi politici degli anni e dei decenni successivi. In quella fase Olindo Malagodi svolse un’attività confidenziale di natura relazionale negli ambienti sia giornalistici che politici. A fine ’14 inizio ’15 Olindo passava meno osservato di Giolitti in persona a recarsi a Montecitorio a parlare con i vari leaders e a cercare di tenere insieme quella maggioranza giolittiana per la non partecipazione alla guerra. Più di trecento deputati avevano portato a Giolitti la carta da visita, a significare la loro adesione al suo atteggiamento per la pace e per il rispetto dei trattati. Ma contro la Disposizione Costituzionale dello Statuto, il Governo Salandra e Sonnino, con la complicità del Re, aveva deciso, alle spalle del parlamento, l’entrata in guerra. Da quel momento Giolitti si ritirò sostanzialmente a vita privata, non mise piede a Roma fino alla fine della guerra perché non voleva apparire uno che boicottava lo sforzo di tanti milioni di italiani che erano al fronte; ma si tenne distante da tutto questo. Si rimise a studiare e a occuparsi anche di banca.
Perché Olindo è il primo Malagodi banchiere. All’epoca non vi era incompatibilità fra le funzioni in banca e le funzioni parlamentari e quindi Olindo, che era stato fatto nominare da Giolitti Senatore del Regno, fu per un quindicennio Consigliere della Banca Commerciale Italiana, la banca più cosmopolita dell’epoca nata soprattutto con capitali tedeschi . L’amministratore Delegato era Jòsef Toeplitz che ebbe problemi nel momento in cui l’Italia dichiarò guerra non solo all’Austria ma anche alla grande Germania. E la banca commerciale venne tenuta fuori dalle contese della guerra provando a sterilizzare l’azionariato e inserendo maggiormente gli italiani nella gestione della Banca. Questa vicenda portò chiaramente fuori dall’agone politico Giovanni Giolitti e Olindo Malagodi che si occuparono allora di letteratura, di poesie, di storia e di banca appunto. Giovanni mi ha raccontato che quando si laureò nel ‘24 Croce volle far pubblicare la sua tesi da Laterza e difronte al suo desiderio di fare vita pubblica il padre Olindo gli disse: “No Giovanni, noi per almeno 10 anni dovremo sopportare una dittatura illiberale e antidemocratica. Non ci sono spazi per chi pensa come noi, come Giolitti e Croce. E’ meglio che tu – continua Olindo – per svolgere attività pubblica, vada ad esercitarla nell’area nella quale vi deve essere il massimo di impegno culturale e di servizio civico che è il massimo dopo la vita pubblica istituzionale, ovvero sia l’attività bancaria che è assolutamente distinta e distante dalla politica ma ha bisogno di una dedizione di una cultura di un senso del dovere e di una imparzialità comparabili poi con la vita nelle amministrazioni pubbliche.
E Giovanni fece così: andò a Venezia dove divenne funzionario della COMIT, molto promettente. Venne mandato in Germania ed in altri paesi a specializzarsi; a 29 anni era già Direttore Centrale, cioè il massimo livello sotto il Direttore Generale. Era il 1933. Erano gli anni in cui la Banca Commerciale era andata in crisi come tante altre; era stata nazionalizzata, era nata l’IRI. La proprietà era cambiata, non era più tedesca dopo il defaultt della banca, ma dell’IRI, dello Stato. E a Toeplitz, soprannominato il padrone, (e che Giovanni aveva accompagnato per nave anche in una trasferta in America, era subentrato un italiano, un giovane di Vasto, in Abruzzo, Raffaele Mattioli, già prima Capo della segreteria affari generali della Comit, che volle al suo fianco Giovanni Malagodi. Siamo nel ’33.
In proposito noi abbiamo visto pubblicare proprio in questi ultimi anni dall’editore Aragno, i volumi sul rilancio della Comit, sia per la parte che ha sviluppato Raffaele Mattioli (rilancio societario e della struttura sociale); sia per la parte delegata a Giovanni Malagodi che riguarda la riorganizzazione delle filiali.
Il modello che noi oggi abbiamo in banca come modello informatico per l’istruttoria sui fidi, sui prestiti alle imprese e alle famiglie, trae origine da un modello inventato proprio da Giovanni Malagodi. Un nuovo modo di fare banca che, dopo quella fase di crisi bancaria quando alla fine degli anni ‘20 e all’inizio degli anni ‘30 saltarono tutte le principali banche nazionali. Tant’è che negli anni dopo il ‘45 noi abbiamo trovato le principali banche italiane tutte nazionalizzate o trasformate in banche di Stato, la BNL o le tre Bin , le banche di proprietà dell’IRI . Questa esperienza portò Malagodi fino al 1938 a girare molto all’estero, a vivere a Milano fra Piazza Scala, sede della Comit (oggi sede museale, uno spettacolo di storia di museo e di mostre).
Nel ‘38 vennero approvate drammaticamente le leggi razziali in Italia. In una sola seduta, ciò che rimaneva di un parlamento italiano fascistizzato quella camera, l’ultima di quella fase storica del regno , approvava le leggi razziali e subito dopo, nella medesima mattinata, approvava la Camera dei Deputati elettiva e la nomina della Camera dei fasci e delle Corporazioni.
Giovanni aveva la mamma, una Levi, di origine ebraica e per Malagodi questo fu un motivo di preoccupazione. Il primo a intervenire fu Cuccia che andò da Mattioli per chiedere di occuparsi di Giovanni prima che venissero applicate le leggi razziali. Oltre a Giovanni ci si occupò anche di Antonello Gerbi, perché i Gerbi erano di religione ebraica e imparentati con i Levi. Antonello fu mandato subito in Perù e Giovanni a Parigi ma poi si capì che Parigi poteva essere occupata dalle truppe naziste (ciò che poi avvenne dopo pochi mesi) fu fatto partire per il Sud America per dirigere Sudameris. Sudameris era una banca franco-italiana, cioè per metà di una banca francese, Paribas, e metà della Comit) che era la Capogruppo delle banche italofrancesi per tutta l’America del sud. E Malagodi arrivò nel ‘39 in questo esilio. Imparò subito anche lo spagnolo e lì si installò fino al 1946. Sette anni difficili perché mentre all’estero, in Sudamerica, rappresentavano una banca italo-francese in Europa accadevano questi eventi: nel ‘40 l’occupazione di Parigi e la nascita del Governo collaborazionista di Vichy; sempre nel ‘40 l’entrata in guerra dell’ Italia anche contro la Francia. Quindi una coproduzione italo-francese economica in Sud America diventava ben complessa. Poi nel ’43 mentre l’Italia, con l’8 settembre e con il cambiamento di alleanze, aveva altri riferimenti, la destra dello Stato continuava a occupare Milano dove era la sede della Comit. La Francia riusciva nel ‘44 riusciva a liberarsi della dittatura e dell’occupazione.
Tenete conto che la Santa Sede incaricò nei primi anni ’40 Malagodi come Direttore di Sudameris di curare tutti gli interessi della Santa Sede in tutta l’America del sud. Una testimonianza incredibile: un giolittiano, crociano, che rappresentava la Santa Sede in un continente, il Meridione degli stati dell’America .
Malagodi arrivò nel ‘46 .
Quando l’Italia riprese la sua libertà la situazione era ben diversa da quella di partenza. Giovanni non si mise in politica ma aiutò le delegazioni italiane per il Trattato di Pace come diplomatico esperto di economia a cercare di limitare al massimo i danni che la belligeranza, assieme ai nazisti, produceva per l’Italia. E quindi fu consulente di De Gasperi negli anni appunto della trattativa sul Trattato di Pace che si completò poi nel 1947. Poi ebbe impegni di natura economico bancaria; fu rappresentante della Comit a Roma come Capodelegazione e fece parte del Comitato Esecutivo dell’Associazione Bancaria Italiana che dal 1945 era stata ricostituita come libera associazione. Solamente nel ‘53 Giovanni Malagodi ritenne che fosse giunto il momento suo dell’impegno istituzionale. Del quale non parlerò perché la motivazione della sentenza che il sindaco mi ha anticipato è opportunamente facente riferimento ai ruoli bancari di Olindo e Giovanni Malagodi.
Perché Giovanni è stato un banchiere anche quando si muoveva nelle istituzioni. Ed era proprio la sua quella rigidità del banchiere che deve fare riferimento a principi alti che non ne coniugava una disponibilità alle tattiche e al tatticismo che invece in Italia hanno maggiori spazi.
Quando venne a Cento aveva 80 anni, sembrava un ragazzo, ed era accompagnato dalla prima moglie, più anziana di lui, che aveva conosciuto in Germania.
Un aneddoto sulla conoscenza delle lingue di Giovanni. Pranzare a casa Malagodi era un problema. Ho pranzato tante volte da loro e a tavola cambiavano lingua più velocemente che cambiare i piatti e se non volevano farsi capire dagli ospiti ci riuscivano molto bene.
Pensate che quando ci fu il primo congresso degli spagnoli dopo la morte di Franco, successe che chiamarono Giscard d’Estaing, Presidente della Francia che parlò in francese ed ebbe successo; venne chiamato Hans-Dietrich Genscher, Ministro degli Esteri, Vice Cancelliere tedesco che parlò in tedesco ed ebbe successo; ed il Capo dei liberali inglesi Jeremy Thorpe, che parlò in inglese ed ebbe successo. Poi chiamarono un altro che non aveva i titoli istituzionali degli altri. Si chiamava Giovanni Malagodi che parlò, pensate, in castigliano perché sapeva anche il castigliano! E di conseguenza venne giù il Palazzo dei Congressi della rinnovata democrazia spagnola post franchista.
Mangiare con Malagodi dunque era un problema perché innanzitutto lui parlava con me in italiano, con la moglie parlava tedesco, ed entrambi passavano all’inglese ed al francese come niente e al latino che era uno dei pezzi forti ma su quello reggevo bene anch’io. E Giovanni è morto studiando il russo perché capiva bene che sarebbe successo qualcosa che avrebbe permesso, con l’unione sovietica ormai in scioglimento, di riprendere anche questo rapporto con l’Europa.
Ho imparato da lui tante cose. Innanzitutto che nei momenti di difficoltà bisogna mirare alto e tenere alto i principi, seguire i principi. Che l’etica in economia e nel resto viene prima anche delle norme e come scriveva Minghetti ed avvalorava Einaudi se un’operazione economica è giuridicamente ammissibile ma contrasta con l’etica non va comunque fatta. Un insegnamento che in qualche modo ripeto a tutte le assemblee dell’Associazione Bancaria.
Giovanni ha lasciato anche grandi testimonianze di come si rilancia una banca. Come si rinvigorisce l’attività delle filiali che devono essere delle micro banche ovverosia devono fare tutte le operazioni, essere al servizio localmente dei cittadini. L’insegnamento di Malagodi rimane, rimane anche nella sua grande esperienza come servitore dello Stato ma con la rigidezza del banchiere. Nell’84 eravamo qui a festeggiarlo; nell’89 quando compì 85 anni eravamo con lui a Parigi per il bicentenario della rivoluzione francese e ci invitò a cena per restituire l’omaggio che gli avevamo fatto a Cento. Ci invitò nella sala superiore della Brasserie Vip, un luogo classico a cui lui era legato fin dal ‘38 ovvero sin dal periodo del suo primo esilio.
E lui ci raccomandò: Antonio tu ti stai rioccupando di banche, attenzione! E le raccomandazioni erano appunto non solo del buon padre di famiglia ma quelle che facevano riferimento alla rigidezza dei principi. Usava una metafora: “Come un Vescovo Scismatico”, perché faceva riferimento all’esempio dei vescovi scismatici che sono appunto scismatici perché sono più rigidi di vescovi non scismatici che contestano appunto per lassismo. Quindi occorre un’assoluta rigidezza ed uno studio continuo a cominciare dai classici fondamentali che per lui erano sostanzialmente i seguenti: il primo di Tocqueville “La democrazia in America”, libro fondamentale; e poi nella nostra Italia i riferimenti erano gli stessi che condivideva con un suo collega bancario, Saragat (non La Malfa). Perché pochi sanno che Saragat, giovane torinese, vinse il concorso per entrare in Comit, dove rimase fino al ‘25 cioè fino al proclama dell’inizio della dittatura che il 3 gennaio Mussolini impose; e siccome lui era amico di Rosselli, di Gobetti, non graditi al regime, la Banca Commerciale lo agevolò ad espatriare. L’esilio di Saragat incominciò nel ’25. Andò a lavorare in alcune banche austriche e poi in Francia dove si inserì nei Comitati della Resistenza. Ecco, questo nostro mondo postbellico, e qui concludo, è stato tanto influenzato dalle varie esperienze di resistenti che avevano però una grande cultura e avevano dei principi non solo di economia ma di etica che a mio avviso sono quelli che mandano avanti non solo l’economia sana ma anche le istituzioni quando hanno bisogno di rigenerarsi come spesso accade alle istituzioni.
vi ringrazio molto per l’ onoreficenza .
Antonio Patuelli .