Membro del consiglio dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia: Chi garantisce l’etica del giornalismo con l’avvento del giornalista Robot?
Il futuro dell’informazione con il sopravvento delle nuove tecnologiai sarà privo di veritaI robot non hanno un’etica, i robot imparano da noi quindi se noi facciamo buon giornalismo loro impareranno a fare buon giornalismo. Se noi facciamo cattivo giornalismo quando arriveranno i robot, se arriveranno, faranno cattivo giornalismo.
Il giornalista è stato fino a ieri mediazione tra un fatto e il pubblico; oggi non è più così perché non c’è più intermediazione. Le fonti moltiplicate hanno creato uno scenario definito post verità, una condizione in cui le emozioni e le convinzioni personali contano più dei fatti. Leggiamo, sentiamo, ci arrivano input da tutte le parti in uno stesso giorno, su uno stesso tema (es. le tasse aumentano; le tasse calano). Vero o non vero interessa poco, è importante piantare una bandierina e fare arrivare dei segnali: questo è lo scenario della post verità. Quando scriviamo delle scarpe di Maria Elena Boschi o del balletto della moglie di Ciro Immobile affrontiamo argomenti di interesse pubblico? Gli algoritmi hanno avuto sul nostro mestiere l’effetto di spostare l’attenzione da l’interesse pubblico a l’interesse del pubblico. Gli stessi giornali scrivono per il clic, per l’algoritmo, perché sono argomenti cercati, perché ci hanno insegnato a scrivere in modalità SEO, un’ arma straordinaria da “maneggiare “ con cura altrimenti si va in clickbait. Il giornalista dovrebbe scrivere notizie di interesse pubblico, ma non lo fa sempre. Non può sottrarsi alle nuove tecnologie e nel costruire una notizia è condizionato anche lui dal meccanismo degli algoritmi che lo rimandano a bolle-dati dove si riconosce. Quando facciamo delle ricerche su Google quando navighiamo su internet, quando clicchiamo su Facebook, gli algoritmi ricordano e ripropongono gli argomenti che secondo loro ci interessano di più. Tutto questo ci porta a chiuderci dentro a bolle di dati, a non metterci in discussione, a non pensare, a non crescere.
Fake news o crisi dei giornali hanno a che fare non solo con il mestiere del giornalista ma riguardano la società più in generale, la disgregazione che è in atto e le modalità con cui noi fruiamo dei contenuti. In questo scenario noi giornalisti siamo disarmati, la deontologia non basta. Dobbiamo darci nuovi strumenti seguendo l’indicazione di alcuni studi fatti negli Stati Uniti. Ovvero bisogna scrivere articoli che offrano delle risposte e che siano complessi o meglio che rappresentino punti di vista differenti.”
“I giornalisti possono fare pochissimo ma qualcosa possono fare. Intanto in tema di interesse generale potrebbero diffondere la media literacy, vale a dire spiegare alle persone come funzionano i social, la rete, tutto un mondo in trasformazione, per poter capire i meccanismi di funzionamento di queste realtà. Un esempio: la prima pagina di google non è necessariamente la verità; non solo ma quello che tu vedi nella tua feed, o nella tua timeline non è tutto il mondo che la pensa così, è solo quella tua bolla che ti chiude, sono quei 15-20 contatti che ti fan credere che tutti la pensano come te.
Il secondo aspetto riguarda l’educazione alla bellezza stilistica per poter distinguere ad esempio un articolo di Gianpaolo Pansa o di Dino Buzzati, (magistrali rimangono le loro cronache all’indomani della tragedia del Vajont), da un articolo scritto da un robot. Sono convinto che il nostro futuro sia nel giornalismo costruttivo ancorato alla realtà, nel giornalismo che ti fa riflettere, ti pone delle domande, ti fa mettere in discussione.